di Simone Casarola (@simocasarola)

Il merito – o la colpa, dipende dai punti di vista – di Edoardo D’Erme, in arte Calcutta, è di avere aperto il panorama italiano a quella forma di musica finta indie ormai identificata dal termine it-pop.

La prima breccia nel muro della cultura di massa è stata infatti Mainstream, l’album del 2015 del cantautore da Latina.

Calcutta però non ha mai dimenticato da dove arriva, lontano dal glam della metropoli, mantenendo la genuinità della provincia come una specie di innocenza velata che si rispecchia nelle sue canzoni.

Quelle che racconta nei suoi testi sono storie di gente comune. Persino la figura del bomber (figura mitologica di questi anni) non è più quella del calciatore mercenario che passa le nottate in discoteca con le veline ma Dario Hübner, il prototipo del giocatore da squadra provinciale. Un talento certo intriso di birre e sigarette che non è mai approdato in una grande squadra per poter rimanere vicino a casa.

Il cantante di Latina che ha scosso il panorama musicale dando il via all’it-pop si dimostra ancora una volta un “romantico rivoluzionario”.

Se tanti dopo di lui hanno provato a ripercorrere i suoi passi – la copertina del disco lo vede seduto in un prato con dietro una schiera di pecore – è lui stesso ad allontanarsi da questo nuovo movimento.

Le canzoni di Evergreen sono davvero senza tempo. Le melodie e le ritmiche hanno un’aria anni 60 e il cantato è vicino a quello dei cantastorie dei grandi successi.

Calcutta non strizza l’occhio al pubblico con un album ammiccante, sulla riga del precedente.

Evergreen è però ad ogni modo un album accattivante, pieno di melodie che ti si fissano in testa e momenti di sing along per il pubblico dei concerti, birretta alla mano e lacrimuccia all’occhio.